Tanzania, il safari ti cambia

Smettere l’approccio cerebrale al viaggio, ascoltare il proprio istinto risvegliarsi, emozionarsi fino a desiderare di posare l’orecchio sulla savana per ascoltare il battito del cuore della terra. Capita, se ci si avventura in un safari fotografico in Tanzania.

“Quella è una gazzella Thompson, non confonderla con quella di Grant o peggio con un impala”, dice il mio autista, in inglese; penso si prenda gioco di me se crede che io sia in grado di distinguere le gazzelle in base ai colori delle striature del pelo. Lo penso il primo giorno, reduce da uno sbalzo feroce dal mio contesto metropolitano occidentale, al minibus che ospita al massimo 7 persone e che mi accompagnerà nel safari, termine swahili che indica il viaggio. Lui sorride zitto e sa che invece imparerò a riconoscere animali, orme, comportamenti, e anche qualcosa di me.

Lungo la via del caffè siamo arrivati nel TARANGIRE, il parco nazionale che dista 180 km dalla città di Arusha, a un’altitudine di 1110-1350 mt; ci hanno salutato colonie di babbuini e uccelli che sembrano aver intinto le piume in tavolozze dai colori accesi. Il primo game avviene fra le 8 e le 13; oltre alle gazzelle ci aspettano branchi di gnu e zebre, che viaggiano spesso insieme, elefanti che attraversano i sentieri in fila indiana avendo cura di proteggere i cuccioli, tutti in cerca di acqua. E’ poi la volta dell’incontro con dik dik, aquile maestose e giraffe che fanno tenerezza perché per timidezza vorrebbero nascondersi dietro ombrellifere contorte ma sono molto più alte di queste piante e le loro teste sovrastano i fogliami. Nel pomeriggio ci attende un secondo game, fra baobab che sembrano sbucati dalle pagine del Piccolo Principe, che si divincolano imponenti ma poi si avvinghiano in abbracci eterni. La vegetazione è mutevole, ci sono aree scoscese, palmizi in prossimità delle falde acquifere, cespugli aridi e arbusti contesi dai termitai, l’albero delle salsicce, i candelabri – enormi piante grasse -, acacie con nidi strabordanti. In un baleno arriva l’ora del tramonto e si acuiscono i suoni emessi dagli abitanti del parco, richiami di un linguaggio che fende il silenzio della savana; sullo sfondo il cielo si infiamma, diventa di un rosso infuocato, come colpito da dardi.

Quando lasciamo il Tarangire, viaggiamo verso il Serengeti, attraverso pianure verdi coltivate a mais e vallate che via via si trasformano in foresta. Non ci fermiamo al piccolo parco del Lake Manyara e questo lo rimpiangeremo per mesi. Incontriamo villaggi locali e sconfiniamo nel NCA, National Conservation Area, un territorio protetto che ingloba Manyara, Serengeti e Ngorongoro, dove solo i Masai possono vivere perché itineranti. Smettiamo di fare un conto delle distanze basandoci sui chilometri perché le strade non asfaltate richiedono ore e ore di percorrenza.

Nel SERENGETI (il nome sta per grande pianura) il benvenuto è quello di leonesse che si stiracchiano pigramente all’ombra, sul ciglio della strada. Sono il preludio dell’avventura che ci aspetta. A un’altitudine che va da 900 a 1800 mt, sembra di vivere dentro un documentario in cui la visuale è a perdita d’occhio; la Valle dell’Eden è affascinante coi suoi kopje, colossali massicci granitici con un micro habitat, dove non è raro imbattersi in struzzi, alti e veloci, e in ghepardi, espressione perfetta dell’aerodinamica. Nelle piane di erba alta vi sono facoceri e leoni mentre fra i canneti degli stagni si riuniscono gli ippopotami, niente affatto miti come voleva una pubblicità italiana di tanti anni fa. Nel Serengeti imparo a riconoscere le gazzelle dagli impala, fra gli impala i maschi, le femmine e i piccoli, il sesso delle giraffe, imparo a saper aspettare, appostata per ore, per vedere un leopardo salire sull’albero dove aveva lasciato a macerare la sua preda; mi si aprono nuovi orizzonti, non soltanto visivi, ma soprattutto nella facoltà di percezione, l’istinto di risveglia, si allerta e si rivela più ricettivo che mai.

All’alba esco sul terrazzo della mia camera a prendere gli scarponi e chi incontro a cinque metri? Un bufalo e un elefante; la giornata promette bene. Staremo fuori dalle 6.30 alle 19, con un rientro al lodge per fare colazione e una sosta al Quartier Generale dei Rangers, dove si preannuncia un pic-nic. L’autista fa la posta alle radure ombrose e la sua esperienza sa che i predatori sono sempre in prossimità dell’acqua; il suo fiuto mi regala un’emozione fisica assoluta, una scena di caccia ad opera di tre leonesse. I tre esemplari si abbeverano con una calma innaturale, poi si dispongono formando un triangolo e annusano l’aria; avvertono un branco di gazzelle ed è come se si comunicassero simultaneamente la vittima predestinata. Quando le gazzelle pascolano, una sta sempre di vedetta, lancia l’allarme in caso di pericolo, ma non può salvare la totalità del branco, fa parte della legge della natura; le leonesse si avventano sullo sfortunato animale, troppo piccolo per soddisfarle tutte, al punto che litigheranno fra loro. Al termine della lotta, della gazzella non rimane che il mucchietto di erba che aveva nello stomaco, mentre le tre leonesse si puliscono il sangue dal pelo, come enormi gatti innocui. Un’esperienza del genere ti fa sentire parte di quello che sta accadendo, ti provoca un’emozione violenta e alla fine quasi non senti più il tuo sangue e il tuo respiro.

Con l’arrivo dell’alba successiva il safari procede dirigendosi verso un altro parco, quello adagiato nel cratere di NGORONGORO, a un’altezza che va da 1700 a 2300 mt. Ci si arriva in quattro ore, facendo tappa alle Gole di Olduvai, canyon lungo 50 km e profondo 90 mt, dove archeologi internazionali hanno studiato gli strati geologici e rinvenuto reperti che testimoniano presenze umane risalenti addirittura a 1.700.000 anni fa. Il parco di Ngorongoro è adagiato in un cratere vulcanico, dove vivono, rigorosamente protetti, una ventina di rinoceronti, ultimi esemplari dello scempio avvenuto nel Novecento, quando ai safari si arrivava muniti non di videocamere ma di fucili. Qui ci si veste a strati, perché all’alba fa veramente freddo e col sole si rifiorisce e si apprezzano gnu e zebre, leoni e leonesse, falchi, babbuini, bufali, facoceri e, sul lago Magadi, fenicotteri rosa, gru coronata e ippopotami. La sera ci si ritrova davanti all’accogliente camino del lodge, in un salone con grandi vetrate affacciate sulla natura silenziosa. Si ripensa agli animali avvistati, alla profondità delle emozioni vissute, alla fisicità di un’esperienza in cui la cultura e la razionalità non c’entrano niente e che dischiude orizzonti che non possono essere relegati in un album di fotografie.